SCRITTI D'ARTE

 







 






 

 


Falsi Ready Made
I rebus, le cartoline raccolte in Falsa Riga, gli Amorosi legami i carillon, e i Rancorosi legami, lavori eseguiti dal 1999 al 2010, sono da me definiti Falsi Ready Made. Oggetti credibili, non prodotti per una mostra, ma ad essa arrivati tali e quali, come se fossero stati costruiti da altre persone per luoghi diversi da quelli dell’arte. In questi lavori sono rintracciabili delle costanti concettuali e tecniche. L’uso della fotografia è fondamentale e lo sarà ancora nei prossimi lavori. Senza entrare nel ginepraio delle teorie sulla fotografia e sul ruolo che ha assunto nelle arti visive, qui posso cominciare a dire che, dagli anni ottanta, ho cominciato ad usare in modo sempre più rilevante la fotografia trovata, non eseguita personalmente, prodotta da un uso personale della camera.

 La fotografia come ready made (non come la intende Claudio Marra, che in sostanza ritiene che tutta la fotografia sia un ready made) ma come ready made duchampiano. Ho deciso cioè di usare le fotografie che provengono dagli album di famiglia che appunto, come lo scolabottiglie di Duchamp, decontestualizzate, nei miei lavori diventano polisemiche, perché parte di un’opera d’arte. Queste fotografie da me accuratamente scelte, sono usate a grandezza naturale, ecco perché, in genere, preferisco i piccoli formati, hanno una grandissima valenza esistenziale ed estetica. In questo modo credo di avere qualcosa in comune con il lavoro dell’americana Diane Arbus che, a mio parere, usando in modo volutamente maldestro la macchina fotografica, lasciando cioè spazio all’errore fotografico, ad esempio la sovraesposizione, si è avvicinata alle caratteristiche della fotografia da album di famiglia. Nelle sue immagini, anche quando sono ritratte persone o famiglie assolutamente normali, tutto diventa mostruoso, possibile innesco del dramma che porta all’autismo. Nei miei lavori sfrutto il fatto che la fotografia è bugiarda e sacra. Bugiarda perché facilmente trasformabile dalla didascalia. Questo mi permette di attribuire nomi nuovi a persone sconosciute e a luoghi mai visitati. Persone anonime sono diventate Anna, Maria o Giannino così così, paesi di montagna luoghi di mare, normalissime, e forse mediocri signore, fondatrici della T.K.A corporation di Boston che, naturalmente, non è mai esistita. Sacra perché non ci permettiamo mai di strappare, bruciare, sciupare e, quindi, profanare l’immagine di una persona amata o scomparsa.

Queste immagini sono in qualche modo magiche perché, per tutti noi, quei pezzi di carta, incarnano materialmente quella persona cara. Far male alla sua fotografia è come farlo direttamente alla persona in carne ed ossa, profanare quella rappresentazione del tempio che vediamo in lei. ( I. Goffman) Naturalmente vale anche il contrario ed è esattamente quello che ho simulato nei miei Rancorosi legami. Nei film si vede regolarmente qualcuno strappare la fotografia del partner appena lasciato o da cui sono stati abbandonati. Si distruggono portaritratti e si cestinano interi album fotografici, quando in quei film, ma anche nella vita reale, si è inferociti con qualcuno. La profanazione, nei miei lavori, come l’uso delle immagini fotografiche degli album di famiglia, alla fine, contrariamente agli esiti del lavoro di Diane Arbus, diventa positivo, forse per questo sono ancora vivo. La scrittura, mi dicono, è una calligrafia, lo strappo toglie soltanto la parte meno buona dell’immagine, la parziale sovrapposizione di essa con carte di vario tipo e di biacca che porta ad un parziale occultamento-sparizione, diviene epifania. Nel rebus Settembre, una fotografia è stata completamente coperta di biacca, di essa è percepibile solo la sua consistenza materica e il suo bordo frastagliato. Questo potrebbe essere una contraddizione. Tutto è dominato dalle regole gestaltiche della buona forma, come d’altra parte avviene, e lì mi sembra si possa trovare una contraddizione più stridente, e in qualche modo preoccupante, nei fotoreportage di guerra. Fotografie in cui si allineano cadaveri seguendo le regole della composizione e della sezione aurea. In un numero di Phototeca, costosa, almeno per me vent’enne di allora, e voluminosa rivista degli anni ottanta curata da Ando Gilardi, nel numero dedicato alle catastrofi e alle apocalissi, una pagina titolava, Verrà la guerra (la morte) e faremo belle foto. Per quanto riguarda le didascalie e le indicazioni scritte all’interno dei lavori sono redatte con una scrittura che non significa niente, scrittura in termini saussurriani che è solo significante, che non rimanda ad altro che a se stessa o a ciò che in quel luogo dell’opera sembra incaricata di fare, didascalia, sonetto, indicazione di direzione, poesiola, nota a piè di pagina o dedica con firma. Questa falsa scrittura è una delle componenti sempre presenti nei miei lavori, convive con altri improbabili codici. Operazioni matematiche che moltiplicano, pongono tra parentesi graffe e tonde, simboli inventati che poi migrano, magari solo un po’ più eleganti e fluidi, a far confusione in pentagrammi dove l’unica vera indicazione di scrittura musicale è la chiave di violino, quella da tutti conosciuta, e quindi non eseguibili da nessun, se pur bravo, musicista.

Tutto quello che qui ho sinteticamente indicato, e altro che potrei aver dimenticato, è utilizzato nella preparazione di quelli che, dicevo all’inizio, io definisco falsi ready made. Oggetti credibili, non prodotti per una mostra, ma ad essa arrivati tali e quali, come se fossero stati costruiti da altre persone per luoghi diversi da quelli dell’arte. Credibili ma falsi perché da uno sguardo meno sbadato, lo spettatore, si accorge che in essi ci sono una serie di incongruenze che dimostrano tale falsità. Le cartoline, con la loro carta giallina sono assolutamente vere e reali, cartoline trovate mai scritte, compilate con la falsa scrittura ed affrancate con veri francobolli timbrati come se fossero passati in un qualunque ufficio postale. Apparentemente tutto è in ordine ma in realtà nulla è al suo posto. La scrittura, quella falsa, va fuori e invade lo spazio come pure il francobollo che è affrancato in luoghi di confine o oltre il rettangolo della missiva. In certi lavori di Falsa riga vi sono pagine credibili, che potrebbero essere vere, pagine di quaderno, nelle quali, qualcuno ha voluto incollare, come in un diario, la fotografia della vissuta e inaspettata nevicata scrivendo un lungo racconto. (Qualche volta nevica) E’ forse capitato a tutti, mettendo in ordine un cassetto, di decidere di raccogliere lettere, fotografie o piccoli ricordi cartacei, legandoli con dello spago, o come in altri tempi, con un nastrino colorato. (Amorosi legami). I carillon, dell’ultima mostra, potrebbero essere veri, oggetti trovati, ma di essi, interamente da me costruiti, muniti di un’invitante chiave d’avvio, una didascalia prometterà fantastici, e durante la mostra si è dimostrato, credibili, se pur fantastici, funzionamenti. La struttura dei Rebus è quella canonica, quella della Settimana enigmistica, vi si trova indicato il numero di catalogazione, le indicazioni della lunghezza e del numero delle lettere che compongono le parole della frase da trovare, l’autore del rebus.

Probabilmente, nelle riproduzioni pubblicate nel sito la mia firma non è visibile ma, anche se la tendenza attuale sembra essere quella di occultarla in luoghi non immediatamente visibili, ho consapevolmente deciso di metterla in bella vista. La ritengo fondamentale nel processo di decontestualizzazione del lavoro. Nei rebus ci sono così, immediatamente visibili, due autori, quello del rebus ( Red, Veronese, Ferri…) ed io che, firmando in basso a destra, mi approprio, faccio mio, quello schema grafico quell’enigma composto da immagini, lettere e cifre. Le cose si complicano, ma forse è il lavoro che permette meglio di tutti di cogliere la definizione di falso ready made è Afasia o polisemia dell’opera d’arte. In questo rebus, l’autore in alto a destra e in basso a sinistra sono sempre io. Nel film Il giorno dello sciacallo, ma questo è uno schema narrativo presente, con piccole varianti, anche in numerosi altri film si assiste alla serie di piccole azioni, in perfetto ordine e logica, che un killer compie per montare il suo fucile professionale, quello contenuto, ben oliato, in una valigetta. Di fronte alla finestra, in quel film, il killer, lo sciacallo, compie il montaggio dell’arma con sicuri movimenti scanditi, nel silenzio, da una serie di efficienti rumori metallici. Apre la valigetta (ecco i primi clac) e con estrema professionalità comincia a montare la sua arma. Tante azioni inutili, tanti regolari clic e clac qualche rumore da sfregamento di metalli, che finiscono con l’avvitamento del silenziatore per poi puntare, dal perfetto e glauco cannocchiale cifrato, un bersaglio inesistente. I rebus, come tutta la mia produzione, vengono dal bisogno stesso di produrli e la loro esecuzione, al di là delle motivazioni concettuali, mi ha provocato un indubbio piacere, d’altra parte, anche se nei miei lavori ritengo che ci sia sempre il sacro e il profano, il serio e il faceto, non è detto che in “arte” si debba sempre soffrire e far soffrire lo spettatore. Come quell’attore che interpreta lo sciacallo e il suo regista, mi sono goduto il montaggio del rebus, arma destinata a coinvolgere oltre me anche lo spettatore. Ho trovato piacere nella loro esecuzione formale, preparare lo schema con le fuorvianti indicazioni, dislocare lettere in luoghi di confine o nel vuoto, ho regolato tutto sfruttando l’ortogonalità della lettera T, l’esilità della I e la stabilità rassicurante della A. Per poi, in rebus come Dischi volanti si nasce rinunciare anche a queste con l’uso d’insoliti, per lo schema dei rebus, frammenti di lettere. In quel rebus, tra l’altro, la fotografia non è stata trova ma è una mia immagine degli anni novanta, ristampata personalmente con le tradizionali vaschette e virata seppia. Ho provato piacere nelle soluzioni che, come in tutti i miei titoli, sono state studiate per la loro struttura verbale che, ho notato, in genere, coinvolgono lo spettatore. Lo spettatore, dicevo, è per me fondamentale sia nel suo coinvolgimento sia per quello che eventualmente vorrà dire della mia mostra o lavoro. Durante una puntata della trasmissione radiofonica Fahrenheit, uno scrittore ormai affermato, nell’intervista, ha dichiarato che scriveva i libri unicamente per se stesso, che lo spettatore non era, quindi, importante. Non capisco come si possa essere così scortesi con uno spettatore o lettore che ti degna della sua attenzione, di concederti parte del suo tempo. Mi è dispiaciuto non aver fatto in tempo a prender nota del nome di quello scrittore perché non vorrei correre il rischio di comprare, per sbaglio, un suo libro.

Chi viene alle mie mostre o arriva nel mio studio è chiamato ad interagire con i miei lavori. Coinvolgo il mio spettatore nella lettura di testi scritti, nella soluzione di rebus o operazioni matematiche, nel funzionamento fantastico ma da loro definito credibile, dei carillon. I miei lavori, come dicevo sono importanti sicuramente per me stesso, altrimenti farei altre cose, ma non avrebbero nessun senso in assenza dello spettatore. Lo spettatore è sempre da me rispettato anche quando, se chiaramente rispetta anche lui la mia persona e il mio fare, almeno non fosse altro che per semplice educazione, quando ha un universo culturale o un gusto diverso da quello veicolato dai miei lavori. Nello schema formale dei miei rebus, nella fase di studio, era previsto lo spazio per più soluzioni. Quella mia, già scritta, e qualche riga vuota per lasciare spazio alle soluzioni dello spettatore che le avrebbe potute aggiungere di suo pugno. Ho preferito rinunciare a questa eventualità per evitare l’appesantimento formale dell’opera e per presentare un lavoro finito, già incorniciato. Durante la mostra chi ha voluto parlare con me ha saputo che, quell’unica soluzione visibile, è solo la mia, una delle tante possibili a cui può essere affiancata quella loro.
Lino Fois


 



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